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L'insospettabile omogeneità degli italiani [AVANZATO]

La nostra principale risorsa strategica è l’uniformità culturale, fondata sulla lingua, sul cattolicesimo, sull'assenza di tribù contrapposte. Una carta da giocare al tavolo delle potenze, alla vigilia del ritorno della storia.









1.Sebbene ne siano ignari, gli italiani hanno nell'omogeneità la loro caratteristica più rilevante. Nonostante rivendichino una parcellizzata alterità, hanno nell'uniformità culturale la loro dimensione più strategica. Gli abitanti del Bel Paese denotano evidenti particolarità di matrice economica, civica, amministrativa. Al punto da credersi spesso distanti, estranei. Eppure non palesano nessuna delle irreparabili divisioni che gravano su Stati nettamente più potenti. Specie se indagati in senso relativo, se paragonati agli altri popoli occidentali (e non solo). Gli italiani riconoscono una sola lingua nazionale, il resto degli idiomi è per definizione dialettale. Condividono la medesima cultura cattolica, nello Stivale nessuna teologia aliena ha prodotto costumi concorrenti. Vivono in un’unica comunità etnica, qui non si rintracciano tribù o popoli alternativi. Producono una sola costruzione geopolitica, qui non esistono Stati o feudi in concorrenza tra loro.



Piuttosto, è proprio l’assenza di faglie antropologiche che consente al Bel Paese di esistere senza un efficiente apparato statale, alla popolazione di restare fuori dalla storia, a un partito secessionista di tramutarsi in nazionalista, senza significativi sconvolgimenti. Perché le incongruenze degli italiani sono di natura microculturale, incapaci di trascendere la stirpe. Non riguardano la cifra ancestrale dei cittadini, facilmente distinguibile ancor prima della fase risorgimentale. In futuro tanta uniformità potrebbe tramutarsi nel principale patrimonio a disposizione dello Stivale. Nei prossimi anni l’assenza di un concreto iato tra le sue parti potrebbe consentire all'Italia di conservarsi. Di superare i notevoli shock che inevitabilmente la colpiranno, dal declino economico a quello demografico, dall'implosione della costruzione comunitaria all'aumento dell’entropia nella sfera di influenza americana. Purché la popolazione prenda coscienza della propria singolare natura. E ne colga l’intrinseco beneficio.


2. L’Italia è pura invenzione culturale. A differenza di quanto capitato in Polonia o in Norvegia, qui la civiltà è più potente della matrice etnica. Sul piano genetico gli italiani semplicemente non esistono. Come visivamente evidente, recenti studi intorno al DNA italico hanno confermato che la popolazione è frutto del sovrapporsi di ondate migratorie e colonizzatrici diverse. Dalla diffusione degli autoctoni all'approdo dei greci, dal dominio dei romani alle invasioni germaniche, dall'affermazione degli arabi alle scorribande dei vicini settentrionali. Ma in ambito demografico la dimensione comunitaria è sempre preminente rispetto a quella biologica. Il senso di appartenenza si impone inevitabilmente sulla corrispondenza di sangue, fino a costituire una nazione antropologicamente compatta. Non a caso di italiani si discute fin dal medioevo, quando la nascita di un soggetto nazionale non era neppure contemplata. A differenza di quanto accaduto in Francia, qui lo Stato non ha prodotto la nazione. La pur breve stagione unitaria ha germinato una popolazione indistinta sul piano linguistico, culturale e territoriale.




L’italiano è da secoli considerato unica lingua della penisola, molto prima che fosse parlata dalla maggioranza della popolazione. Da quando nel XVI secolo il cardinale veneziano Pietro Bembo riconobbe nel toscano trecentesco il canone da imporre al resto del paese. Senza che si verificasse una disputa simile a quella registrata in Francia tra lingua d’oc e d’oïl. Scelta di pura matrice intellettuale, unica nel suo genere, giacché il fiorentino non si era affermato attraverso la conquista militare, né in seguito a fusioni dinastiche. Accolta senza obiezioni dai letterati, sicché nel 1827 Alessandro Manzoni pensò di lavare nell'Arno i suoi lombardi promessi sposi, munito di specifico dizionario, 34 anni prima dell’unità politica. Quindi accolta dalla popolazione quando nacque il Regno d’Italia. Fino alla diffusione capillare sul territorio. 

Oggi il fiorentino standardizzato è percepito dagli abitanti dello Stivale come il più alto strumento d’espressione in loro possesso. I dialetti restano ampiamente utilizzati, ma al vernacolo non è attribuita la medesima dignità della lingua nazionale. Quanto segnalato dall'inferiore denominazione. Né esistono nel Bel Paese idiomi concretamente in concorrenza con l’italiano. Neppure a livello locale, nonostante alcuni sparuti tentativi di rilanciare le parlate locali. Come in Sardegna, dove la limba è stata prima elevata a strumento burocratico senza che gli abitanti sappiano realmente scriverla. Quindi recentemente misconosciuta come parlata unitaria da una proposta di legge regionale che la divide in campidanese e logudorese, oltre che in altre numerose varianti.

In molti paesi d’Europa (e non solo) la situazione appare molto diversa. In Spagna il catalano, il galiziano e il basco, lingua addirittura estranea alla radice indoeuropea, insidiano apertamente il primato del castigliano. E la disputa continua ad acuirsi. Nel paese iberico le scuole insegnano almeno quattro madrelingue diverse, con Madrid costretta ad accettare il fatto compiuto. Lo stesso avviene in Germania, dove il bavarese è considerato lingua veicolare, alla pari del tedesco ufficiale, certamente superiore al Plattdeutsch. Da queste parti l’alto tedesco (Hochdeutsch) è spregiativamente definito tedesco scritto (Schriftdeutsch). Così in Belgio, dove francese e nederlandese si disputano lo status di lingua nazionale. Nel Regno Unito, dove al fianco dell’inglese resistono lo scozzese e il gaelico. Oppure in Ucraina, in Estonia, in Lettonia, in Lituania, dove il russo è spesso utilizzato quanto le lingue autoctone. 

Sul piano religioso, in Italia non esiste Chiesa alternativa a quella di Roma. Aldilà della dimensione spirituale, più o meno coltivata, la cultura cattolica è propria di tutti gli abitanti, sovente in maniera inconsapevole. L’Italia non è divisa tra romani e luterani come la Germania o l’Ungheria. Tra cattolici, protestanti ed evangelici come gli Stati Uniti, la Svizzera o i Paesi Bassi. Tra anglicani, presbiteriani, cattolici o metodisti come il Regno Unito. O ancora, tra ortodossi legati al patriarcato di Mosca, ortodossi afferenti al patriarcato di Kiev, cattolici uniati o di rito latino come l’Ucraina. Nella storia italica non si sono registrate guerre di religione come in molti vicini paesi europei. Qui non si è verificato il massacro di San Bartolomeo, né l’editto di Nantes, con cui dimostrare la maggiore rilevanza di Parigi rispetto a una messa. Nello stivale non fu applicato il principio cuius regio, eius et religio, né si è assistito all’ascesa di Oliver Cromwell. Di fatto il cattolicesimo è l’unica religione della popolazione dai tempi del costantiniano editto di Milano (313). Da allora non esiste una struttura ecclesiastica antagonista di quella cattolica. Ne deriva che gli italiani sono due volte fedeli alla loro capitale, per ragioni politiche ed ecclesiastiche. Spesso un freno alla funzionalità delle istituzioni nazionali, ma l’ulteriore segnale di una profonda aderenza culturale.

Quindi l’Italia non registra sul proprio territorio la presenza di sostanziali popolazioni allogene, reali o percepite. Le minoranze alloglotte presenti in una specifica regione (germanici, sloveni, occitani) a livello nazionale sono talmente esigue (appena l’1,2% del totale) da non rappresentare un fattore culturalmente rilevante, sebbene gli altoatesini costituiscano un dossier sensibile. Mentre le minoranze maggiormente corpose (romeni, marocchini, albanesi eccetera) sono troppo sparse nello Stivale per configurarsi come aliene nel medio periodo. Alle nostre latitudini non si rintracciano orangisti e secessionisti, turchi e curdi, catalani e spagnoli. Ovvero popoli composti da milioni di individui, perfettamente autoctoni, stanziati in loco da secoli. 

Da molti secoli, dai tempi delle invasioni normanne o arabe l’etnia italiana non è minacciata sul suo territorio. Al punto che la dizione «gruppo etnico italiano» fu usata per la prima volta soltanto nel trattato di Osimo del 1975, che fissava le frontiere tra il Bel Paese e la Jugoslavia.
Né la popolazione italiana si è mai sciolta in tribù, divisioni molto presenti in altri contesti. A partire dallo spazio germanico, composto da bavaresi, formalmente raccolti nel loro Stato Libero (Freistaat Bayern), svevi, prussiani, anseatici, svizzeri, austriaci. Per cui i tedeschi non abitano tutti lo stesso Stato, giacché 5,5 milioni vivono in Svizzera e altri 8 milioni in Austria. A fronte di appena 350 mila italofoni in Svizzera. Così la distinzione tra piccoli e grandi tedeschi ci appare del tutto sconosciuta. Altrettanto tribale è il Belgio, spartito tra valloni e fiamminghi, tribù per definizione ostili all’assimilazione degli allogeni, specie di origine mediorientale. Di qui la straordinaria diffusione del jihadismo nel Paese piatto. O anche il Canada, dove vivono i quebecchesi, talmente restii ad assorbire immigrati che questi puntualmente diventano anglofoni tra i francofoni. In Italia il pur resistente razzismo interregionale è di matrice civico-economica, mai etnico, tantomeno tribale. Perfino nelle distanze gli italiani si mantengono un unico popolo, condizione che appartiene a pochissime nazioni dell’Occidente. Dalla Polonia agli Stati Uniti, dalla Francia al Portogallo all’Irlanda. Con l’ulteriore vantaggio di non avere sviluppato alcuna alterità puramente geopolitica. Potenzialmente la più insidiosa per la sopravvivenza di una nazione.


3. Le distinzioni esistenti tra italiani non generano soggetti alieni tra loro. Esistono certamente notevoli differenze tra l’industrializzato Nord e l’arretrato Sud. Ma stridenti grandezze economiche non creano popoli, non producono alterità. Lo iato non si traduce in stirpe. Piuttosto si inserisce in una convenzionale dialettica tra parti, ancorché aspra, tipica di un paese che conosce tassi di benessere fin troppo diversi. Largamente sopravvalutata dagli italiani, usi a cogliere le reciproche differenze, scambiandole per cesure antropologiche. Peraltro gli opposti livelli di sviluppo tra Nord e Sud sono stati a lungo complementari, almeno finché il Meridione ha potuto vantare una demografia esuberante e di età mediana più bassa. In realtà, soltanto le distanze etniche traducono la territorialità in nazione, provocano implosioni. La guerra civile italiana – caso pressoché unico nella storia – non fu combattuta tra territori, gli uni contro gli altri. Di fatto non ebbe connotazione geografica, fu perfettamente trasversale. Incardinata negli eventi della seconda guerra mondiale, vide fascisti e antifascisti presenti in ogni contrada del Centro-Nord occupato. I primi gruppi partigiani si organizzarono contemporaneamente a Boves, in Piemonte, e a Bosco Martese, in Abruzzo, il primo omicidio si registrò a Verona. Gli scontri proseguirono fino alla primavera del 1945 nell'intero spazio non ancora conquistato dagli angloamericani, tra miliziani di ogni estrazione culturale e regionale. Non vi fu il Dixieland statunitense contro il Nordest yankee. Nessuna Vandea schierata contro Parigi. Né la repubblicana Catalogna contro la Castiglia monarchica. Vi furono soltanto italiani in lotta tra loro per determinare la forma politica del nuovo Stato, non per crearne altri.

D'altronde l’Italia non contempla nazioni alternative. Qui non ci sono le Fiandre, i Paesi Baschi, la Baviera, la Catalogna, la Bretagna, la Scozia, la Transilvania, il Québec, il Kurdistan. Per noi sarebbe impensabile il destino dell’Inghilterra, nazione tra le altre che compongono il Regno Unito. Il Bel Paese non tradisce neppure le incongruenze tipiche di uno Stato che fu a lungo tributario di molti imperi, dunque segnato dalla presenza di popoli distinti. Caratteristica intrinseca a numerosi paesi dell’Europa centro-orientale, già province degli imperi russo, austriaco, ottomano. Per questo in Lettonia, in Estonia, in Lituania è presente una sostanziale minoranza russa, in parte resa apolide; così in Slovacchia è ungherese il 12% dei cittadini e quasi due milioni di magiari vivono anche in Romania, autoctoni della Transilvania. 

L’unicità del ceppo italiano si palesa nell’agone politico, contesto solitamente di nessuna rilevanza geopolitica, ma utile per leggere fenomeni sotterranei. Nello Stivale non si danno partiti etnici afferenti alla popolazione italiana – la Südtiroler Volkspartei e l’Union Valdôtaine pertengono a minoranze straniere. In Italia i partiti nazionali non necessitano di declinarsi a livello regionale o tribale. Come accade in Germania con la bavarese Unione cristiano-sociale (CSU), solo imparentata con la CDU nazionale, dotata di eccezionale indipendenza e influenza, con il proprio leader, Horst Seehofer, ministro dell’Interno nell’attuale governo tedesco. Oppure in Spagna, dove ogni specifica nazione (comunidad  nell’edulcorata dizione della costituzione post-franchista) possiede propri movimenti etnici e dove perfino i partiti nazionali sono spesso costretti ad assumere sembianze locali. Su tutti il Partito dei socialisti di Catalogna (Partit dels Socialistes de Catalunya e quello dei socialisti dei Paesi Baschi (Euskadiko Alderdi Sozialista), alleati del Partito socialista operaio spagnolo (Psoe). In Canada il Partito liberale è nazionale soltanto nel New Brunswick, nel Newfoundland, in Nova Scotia e nell’isola del Principe Edward, costretto a scendere a compromessi con le diverse fazioni provinciali, diverse tra loro per approccio e politiche. Per tacere della Gran Bretagna, dove esistono il potentissimo Partito nazionalista scozzese o il decisivo Partito unionista democratico dell’Irlanda del Nord.


Piuttosto in Italia si è verificato il fenomeno contrario. Con la Lega che da originaria fazione secessionista si è convertita in partito nazionale, attribuendosi una dialettica sovranista. Senza alcun imbarazzo. Parabola straordinaria, che non conosce precedenti. Possibile soltanto attraverso la sottovalutata omogeneità degli elettori. Alle ultime elezioni politiche, dopo aver espunto il termine Nord dal proprio simbolo, la Lega ha raccolto oltre un milione di preferenze in quel Sud che soltanto 15 anni fa voleva abbandonare al suo destino. Nello specifico: il 17,1% dei voti in Abruzzo, l’11% in Sardegna, quasi il 10% in Molise, quasi l’8% in Basilicata, il 7% in Puglia (il 16% nel Lazio) 6. Percentuali semplicemente irraggiungibili se esistesse la Padania e, di converso, il Mezzogiorno, giacché la differente appartenenza etnica impedirebbe tali commistioni e piroette.

Vicenda emblematica: proprio alleandosi con la Lega, lo scorso marzo il Partito sardo d’azione è finalmente riuscito a eleggere due suoi esponenti al parlamento di Roma, dopo 22 anni che non centrava tanto risultato. In un meccanismo capovolto rispetto a molte nazioni occidentali.

Mentre il successo registrato nel Meridione dal Movimento 5 Stelle non tradisce connotati regionalisti, né ambizioni localistiche. Non solo perché il partito è fortemente presente anche al Centro-Nord. Le ragioni della sua affermazione sono essenzialmente di natura economicistica, non certamente antropologica, sostanziate dal malessere sociale, non dalla volontà di imporre una parte del paese sul resto. La corrispondenza etnica della popolazione italiana non prevede la sostanziale affermazione di forze etniche. E nei prossimi anni potrebbe rilevarsi decisiva nel determinare la sopravvivenza della Repubblica.


4. Gli Stati si stanno riprendendo la scena europea. Al termine di decenni trascorsi a propagandare la fine di popoli e frontiere, il Vecchio Continente sta sperimentando l’inevitabile riemergere delle nazioni. Per volontà americana. Dopo aver ritenuto l’integrazione comunitaria funzionale ai propri interessi imperiali, da alcuni anni la superpotenza non può tollerare il tentativo tedesco di trasformare l’Unione Europea nel proprio spazio di influenza, ancorché inserito nel Washington Consensus.

In questa fase gli Stati Uniti intendono allentare i vincoli dell’architettura continentale, possibilmente senza distruggerla, favorendo la competizione tra nazioni autoctone, nell'intento di risucchiare Berlino nella contesa. Proposito che si aggiunge alla necessità, dettata dal percepito fardello imperiale, di coinvolgere maggiormente gli alleati nella manutenzione militare dell’Eurasia. Cui si somma la parziale accettazione del caos geopolitico, quale fenomeno in grado di inficiare l’azione degli antagonisti. Tra qualche tempo gli americani ricominceranno a pretendere maggiore coesione dai propri clientes, non appena un pericoloso nemico si paleserà all'orizzonte, quando tornerà impellente serrare i ranghi del proprio fronte. Ma nel medio periodo il rilancio degli Stati rischia di disarticolare le popolazioni maggiormente eterogenee, ossia quei soggetti che non sono nazione. Quanto successo negli ultimi mesi a Spagna e Regno Unito, improvvisamente giunti a un passo dal collasso. Con il governo britannico impegnato dopo il Brexit a scongiurare l’implosione dello Stato, potenzialmente cagionata delle tendenze centrifughe di Scozia, Irlanda del Nord e della stessa Londra. E con Madrid preoccupata di evitare la secessione della Catalogna, anche per sconsigliare alla Galizia o ai Paesi Baschi di seguirne l’esempio.



L’Italia, invece, potrebbe evitare tale amaro destino proprio attraverso la sua misconosciuta omogeneità. L’assoluta preminenza del ceppo principale potrebbe consentirle di superare gli shock senza dilaniarsi, di incassare i colpi senza sprofondare. Perfino di adottare ricette dolorose senza temere che una parte della nazione si chiami fuori. Stabilità di cui Roma rischia di avere tremendamente bisogno nell'immediato, al cospetto delle insidiose sfide che potrebbero sorprenderla. Quando lo status quo potrebbe precipitare. Da una sospensione sine die del protocollo di Schengen, con la possibilità che gli italiani siano lasciati a gestire in solitaria l’afflusso dei migranti. Alla ricostituzione del continente europeo in gruppi di Stati distinti e antagonistici, fermi sulle frontiere nazionali – la fazione di Visegrád contro ciò che residua dell’asse franco-tedesco, la Mitteleuropa contro lo spazio meridionale, la «Lega anseatica» contro tutti. Fino all'eventualità che la Germania crei una moneta del Nord Europa (Neuro) tecnicamente capace di spaccare in due l’Italia sul piano economico, poiché il Nord è parte integrante della catena del valore tedesca, mentre il Sud ne è escluso.

Soltanto la compattezza culturale dei cittadini potrebbe conferire al Bel Paese l’attitudine di affrontare – se non superare – tali crisi. D'altronde una nazione unitaria non teme sé stessa, anche se improvvisamente rinchiusa nelle sue frontiere. Non sospetta che una sua provincia possa ribellarsi se in disaccordo con una decisione adottata dal centro. Non ha in seno una Scozia che minaccia la secessione perché favorevole a rimanere nell'Unione Europea, in contrapposizione con Galles e Inghilterra. Può scaricare su una sua parte il peso più gravoso, oppure imporre a una macroregione di sostenere il resto del paese in tempi avversi. Perfino adottare misure anti-economiche, se utili al perseguimento dell’interesse nazionale, nella consapevolezza di poter contare sulla diffusa volontà di sacrificare i benefici materiali per il bene comune. Infine, potrebbe integrare gli immigrati senza rischiare di sfaldarsi in molteplici etnie e sottogruppi al contatto con lo straniero. Nel caso specifico, se riuscisse a sfruttare la propria grandezza sistemica e il privilegio di poter distogliere gli occhi dal fronte interno, il governo italiano potrebbe interloquire con le principali potenze europee secondo le sue condizioni. Senza preoccuparsi che un governo straniero ne mini l’azione sobillando la sedizione di una sua fazione. Lusso che pochi paesi del continente possono concedersi. Quanto non potrebbero sostenere i paesi baltici, la Romania, o ancora una volta la Spagna, appesa alla solidarietà di gilda mostratale in questi mesi dagli Stati europei. Così, se nascesse la Kerneuropa e il Nord Italia volesse restare nello spazio produttivo tedesco fino a adottare la nuova moneta teutonica, Roma avrebbe gli strumenti per imporre una soluzione sgradita alle regioni più ricche del paese e mantenere unito lo Stivale. Con l’obiettivo di affrancarsi dalla sfera di influenza altrui e migliorare la condizione economica del Meridione, incompatibile con l’adozione di una valuta tanto pesante. Probabilmente rammentando alle piccole e medie imprese settentrionali che il Centro-Sud resta il loro principale mercato di esportazione, indispensabile per aumentare le vendite. E che partecipare di un sistema produttivo altrui significa collocarsi fisiologicamente in una sfera di influenza straniera, alla quale si è etnicamente estranei e confliggenti per interesse geopolitico.

Dimensioni della saldezza italiana, superiori a quanto possano vantare numerose nazioni. Tuttavia esistenti soltanto allo stato teorico. In perenne attesa di concreta applicazione, per duplice presa di coscienza, governativa e popolare.


5. Gli italiani mancano pressoché di tutte le grandezze geopolitiche necessarie ad ascendere alla potenza. Non sono massimalisti, piuttosto vivono in dimensione post-storica, che seraficamente scambiano per realtà. Non sono giovani, dunque indisponibili a sostenere lo sforzo necessario a perseguire i propositi più impegnativi. Non sono prolifici, ovvero incapacitati a imporsi per numeri e prospettiva di espansione demografica. Non conoscono la disciplina sociale, per cui difettano della costanza indispensabile per centrare gli obiettivi di lungo periodo, finendo per sfibrarsi prima di compiere l’impresa. Non accettano la propria natura mediterranea, preferendo sognarsi continentali e dismettendo la tattica applicata. Ma hanno nell'unicità etnica la loro principale risorsa strategica. A dispetto di qualsiasi stereotipo, l’Italia si scopre meno frastagliata di quanto si crede. Condizione insospettabile, ma decisiva. Già inerzialmente sufficiente per navigare a vista. Ovvero per ripiegarsi sul proprio comune ventre e scongiurare la disgregazione ogni volta che le incongruenze strutturali precludono il raggiungimento di ambiziosi traguardi. Semplicemente perché gli italiani sono troppo identici per fuggire da sé stessi. Quindi fattore potenzialmente in grado di accrescere l’influenza nostrana nell'attuale contesto internazionale. Ossia di profittare dell’intenzione americana di accentuare il ruolo degli Stati, attraverso l’inconscia uniformità della popolazione. Meglio di molti paesi occidentali. A patto che gli italiani rintraccino nell'omogeneità, e non nella particolarità territoriale, il loro principale connotato strategico. E che riconoscano nell'essere nazione il loro vantaggio più rilevante, alla vigilia del preponderante ritorno della storia.



Tratto da: http://www.limesonline.com/cartaceo/linsospettabile-omogeneita-degli-italiani